Elio Leonardo Carchidi - Inseguendo la curiosità
Bella la storia di Elio Leonardo Carchidi: la sua passione inizia in un attimo, preparata da una giovinezza trascorsa di fianco ad un padre hobbista. Da ragazzo vola a Roma per gli studi e trova ancora la fotografia, che studia con assiduità. Poi le speranze: il reportage, il sociale; con la vita che offre moda e beauty. È come se Elio e la fotografia inseguissero a tratti due rotte divergenti, in una regata che vive di strategie diverse. Forse è lui a inseguire lo scatto, probabilmente ne è anche inseguito. Sta di fattoche a guidare è sempre la curiosità: quella vera, che quando si ferma esegue tutto con cura. Ma una mente fertile alle volte strappa, crea una discontinuità col lavoro precedente: questo perché per imparare occorre anche rinunciare. Lui ci parla di vuoti: di un operato che difficilmente potrebbe approdare in un progetto editoriale. Noi che abbiamo visto (e forse capito) siamo in grado di coagulare un lavoro con un altro, consapevoli che di mezzo (e in mezzo) c’era il pensiero, la ricerca, il vero operare in continuità. Noi siamo convinti che, col passare del tempo, tutto l’operato di Elio potrà essere interpretato con più aree di coerenza. Oggi forse non è possibile, o anche semplicemente faticoso. La curiosità, quando sincera, vola veloce; e l’errore, da spettatori, sta nel tentare di inseguirla, di interpretarla. Guardiamo le immagini; non sono del nostro tempo: inseguendo la curiosità, ci hanno preceduto.
Elio, quando inizi? E perché?
Ho iniziato prestissimo (15 anni), con però un’occasione scatenante. Nel mio paese ci fu un’alluvione devastante: andai sul posto con un mio amico e feci delle fotografie. Ebbero un grande successo e con una di esse vinsi anche un concorso. Da lì partì la passione. Tieni conto che anche in famiglia godevo di buona compagnia. Mio padre (medico) aveva l’hobby per la fotografia. Mi iscrissi anche alla scuola Radio Electra di Torino: ti mandavano tutto, bacinelle ed ingranditore compresi. Parliamo di 40 anni addietro.
Beh, era l’Italia di “Non è mai troppo tardi”: quella da scolarizzare...
Bravo. Al mio paese (siamo nella montagna calabra) a quei tempi fotografavi la povertà vera. Esisteva peraltro la cultura dell’artigianato: i ragazzini andavano dal “maestro” ad imparare un mestiere, lavorando; come dire: ci si passava il testimone.
Un po’ di nostalgia?
Non so. Quella gente aveva delle motivazioni, pur senza una lira. La speranza era per il futuro.
Una passione che è nata “di botto”, quindi...
Che dire: forse con la rincorsa. Mio padre mi portava con sé in campagna, a fotografare le piante. Il suo sogno era quello di redigere un libro di botanica. Quelle ore passate con lui erano piene di fascino. Poi è avvenuto quell’episodio che ti ho raccontato, e tutto si è acceso. C’è stato dell’altro, comunque...
Cioè?
Io sono miope: il che mi offriva un ulteriore stimolo. Fotografando, io vedevo “dopo” quanto non riuscivo a scorgere “prima”. Nel senso della visione, la fotocamera era (ed è) più brava di me. Non ti nego che anche l’uso intenso delle focali lunghe (tele o medio - tele) nasce dal mio difetto diottrico. Con loro posso avvicinarmi di più. Per le stesse ragioni, lavoro con maggiori difficoltà a figura intera, anche se non mi mancano i mezzi tecnici. Tutto si riflette sui tempi di produzione: pochi minuti per uno “stretto”, ore per un campo più largo. Le foto dell’ex arbitro Collina le abbiamo ottenute in pochissimi minuti.
Un padre appassionato e l’episodio scatenante: dopo?
Dopo, quello che succedeva a tutti i “borghesi” della zona: si andava a Messina o Roma per frequentare l’Università. I miei due fratelli (maggiori di me) erano già a Roma, così li raggiunsi. Iniziai con Medicina, poi, un po’ di soppiatto mi iscrissi all’Istituto Europeo di Design, che nasceva propri in quei tempi: anche se su toni meno commerciali...
Oggi c’è la tendenza a fare più focus sul marketing?
Non so, è una mia sensazione: comunque il design di moda prevale un po’ su tutto. Io ho frequentato fotografia per tre anni, 5 ore al giorno: dal lunedì al sabato. Tra le materie vi era anche grafica pubblicitaria, che mi ha avvicinato da subito all’editoria: soprattutto nei termini della composizione.
Ovviamente ti sei dedicato anche allo sviluppo e stampa?
Certamente: almeno fino a quando è stato necessario. Mi sono fermato con l’arrivo del primo Mac.
Ti piaceva stampare?
Molto, con tutte le fatiche del caso. Io ho iniziato a lavorare con le agenzie di modelli e attori/attrici. Le giornate duravano più di 10 ore: con l’aggiunta di sviluppo e stampa. Il digitale sotto questo punto di vista mi ha dato una grossa mano. Ricordo che facevo anche casting per i bambini, il che voleva dire 5/10 copie per ciascuno, per un totale di 400 stampe. Dulcis in fundo, operavo su carta baritata (quando nascevano e si diffondevano le politenate), il che complicava ulteriormente le cose.
Qualche rimpianto per l’analogico?
No, anche perché ho una certa predilezione per le nuove tecnologie. Mi ritengo fortunato nell’aver vissuto quelle esperienze, che mi hanno messo in condizione di conoscere meglio le cose. Oggi c’è meno fatica ed egoisticamente penso vi siano troppi fotografi: peraltro tutti molto visibili (vedi internet). Come dire: la concorrenza è elevata, per cui bisogna inventarsi altre cose. Io, ad esempio, mi sono orientato verso il noleggio di attrezzature e studio professionali. L’entrata che ne deriva mi permette di non correre dietro ai piccoli lavori, ma anche di conoscere altri professionisti: di stare al passo con i tempi. L'attività, comunque, è nata spontaneamente con la fondazione della società STUDIO154, che si prefigge l'obiettivo di diventare col tempo un "polo culturale fotografico". Non si tratta quindi di solo lucro.
Come ti definiresti? In ambito fotografico, intendo?
Molto curioso: uno sperimentatore. Volevo fare il Folco Quilici (mio padre portava a casa molte sue pubblicazioni) o dedicarmi al sociale. L’Istituto Europeo, purtroppo o per fortuna, mi ha orientato alla moda ed allo still life.
Qual è il tuo genere principale?
Se mi dicessero: “Scegli”, direi il ritratto; lo affronto con disinvoltura. Opterei anche per il beauty, che è una fotografia molto equilibrata, pulita, senza difetti, quasi maniacale per le attenzioni che le vengono dedicate; dico spesso che è uno scatto mai finito. Io sono un purista, quindi è un genere che mi piace.
Qual è la dote essenziale che un fotografo deve mettere in campo per fare il ritratto?
Il rapporto umano. Occorre dimenticare di avere di fronte un soggetto - oggetto, riconoscendo la persona: in quel caso si riesce a costruire un buon ritratto. Sono i rapporti personali a vincere, la tecnica deve andare da sola. Quanto ti ho detto potrà sembrare retorico, ma la realtà è quella. Io conosco dei ragazzi bravissimi, che di fronte ad una persona da ritrarre si bloccano. La relazione, poi, deve essere brevissima e veloce: bastano pochi minuti per entrare in contatto con chi si vuole ritrarre.
Quasi un atteggiamento istintivo...
Non proprio: pur sempre di un rapporto si tratta. Se vuoi un elemento aggiuntivo, posso dirti che occorre non prendersi troppo sul serio. La fotografia, la nostra fotografia, non cambierà il mondo: rappresenta un lavoro come un altro. Questa convinzione l’ho maturata nel tempo, ma si è consolidata dopo che ho iniziato a noleggiare studio e attrezzature. Quando guardo un ordinativo, capisco subito chi avrò di fronte: colui che chiede troppo cerca una consapevolezza che non ha, tenta con lo strumento di dare un “tono” a quanto sta facendo. Alle volte è il committente a chiedere un’attrezzatura ridondante: più spesso è il fotografo in cerca di sicurezza.
Certo che il noleggio ti ha aperto uno sguardo sul mondo, almeno quello fotografico...
Sì, anche sulle tendenze. Fino a poco tempo fa, tutti venivano da un’esperienza in Spagna: oggi da Londra. Questioni di mode, ma anche fenomeni curiosi.
Modelli ispiratori?
Bruce Weber, il bianco e nero di Herb Ritz (le sue foto erano opere d’arte), Peter Lindbergh. Non dimentichiamo poi Helmut Newton o Henry Cartier Bresson. Anche Giampaolo Barbieri mi è sempre piaciuto, assieme a Toni Thorimbert e Giovanni Gastel (che ammiravo soprattutto per la pulizia). Un ultimo nome: Guido Harari.
Amore per il B/N?
Senza dubbio, anche se è un po’ nostalgico. Il B/N toglie il tempo all’immagine e offre spazio alla tua immaginazione. Ho sempre ammirato l’Europeo che pubblicava i suoi almanacchi con tante foto monocromatiche.
Vedo dei bianchi purissimi nelle tue immagini...
Il tono “alto” mi è sempre piaciuto perché esalta gli elementi grafici.
Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che invece vorresti portare a termine?
Sì, forse tanti: questo perché nel lavoro non ho mai avuto la pazienza per approdare ad una pubblicazione. Le mie foto soffrono di continuità...
Hai comunque sempre imparato qualcosa...
La curiosità un po’ danneggia.
Scatti per te stesso? In vacanza?
Raramente, anche se in quel caso uso Leica, così: per civetteria.
Qual è il personaggio più affascinante che hai fotografato?
Claudia Koll è una persona semplice, molto bella peraltro; ma tutti i miei soggetti hanno mostrato un lato molto particolare. Collina è un galantuomo; Amanda Lear geniale, anche un’ottima disegnatrice.
Post produzione: come ti trovi?
Benissimo: anche se mi affatica molto e ne farei volentieri a meno. Stare 3 ore davanti ad un computer ha un impatto “fisico” su di me. Del resto io non dedico alla post grandi attenzioni, perché tento di far sì che lo scatto sia vicino al risultato finale.
Deleghi più allo scatto?
Preferisco passare tre ore con la macchina fotografica in mano. Ovviamente, tra ritratto e beauty cambiano le cose: nel secondo hai un lay out da rispettare e devi intervenire.
Se potessi farti un augurio da solo, fotografico è ovvio, cosa ti diresti?
Vorrei che la fotografia diventasse un lavoro artigianale. Oggi si rasenta la volgarità. Capisci che vorrei avere dei modelli cui fare riferimento: per migliorare ancora.